Google ci rende un po’ stupidi

Alcune ricerche scientifiche sostanziano le tesi sul cambiamento del nostro cervello indotto dalle nuove tecnologie

”Google ci rende stupidi?” era il fortunato titolo di un articolo di Nicholas Carr sull’Atlantic Monthly, un anno fa, da cui Carr ha appena tratto un libro (“The shallows”) e che fece fare un grosso salto in avanti al dibattito sui cambiamenti psicologici e culturali in negativo dell’uso delle nuove tecnologie.

Questo dibattito appare spesso capriccioso e bastian contrario, e qualcuno accusa Carr di averci trovato di che campare per gli anni a venire, mentre molti tirano per la giacchetta i suoi spesso validi argomenti per meno informate campagne revisioniste. Quello che manca, è un po’ di serio approfondimento scientifico, che segua la condivisione di quanto sintetizzò a suo tempo Giuseppe Granieri, studioso italiano dei meccanismi di internet:

la buona domanda a me pare più “come stiamo cambiando?” che non l’implicito giudizio contenuto nel chiederci: “era meglio prima?”

Un lavoro di ricerca scientifica in questo senso è raccolto oggi dal New York Times, che cerca di analizzare quel che sappiamo su come il nostro cervello si comporta nel nuovo sistema di attività discontinue, distrazioni e multitasking creato dalle nuove tecnologie e dalla rete. L’articolo spiega che gli stimoli di questo genere producono dopamina ed eccitazione che possono generare dipendenza: in loro assenza le persone si sentono annoiate.  E la ricerca continua di nuovi stimoli può avere molte controndicazioni, che vanno dall’assentarsi da impegni seri e bisognosi di concentrazione a trascurare la propria vita relazionale e familiare, a mettere a rischio doveri delicati e importanti.

Il New York Times riprende gli studi degli ultimi mesi che hanno cominciato a mettere sotto accusa il multitasking: piuttosto che rendere più produttivi ed efficienti, seguire contemporaneamente e con alternanze continue più attività diminuirebbe sensibilmente la concentrazione e la capacità di selezione delle priorità, aumentando lo stress. Secondo nuove ricerche, queste controindicazioni resterebbero attive anche una volta cessata l’attività di multitasking.

“La tecnologia sta reimpostando il nostro cervello”, dice Nora Volkow, direttore del National Institute of Drug Abuse, che tende ad associare il rapporto con gli eccessi di stimoli digitali non tanto a quello con droghe e alcool ma a quello con sesso e cibo: attività indispensabili ma pericolose negli abusi. Nel 2008 il consumo di informazioni da parte degli americani era triplicato rispetto al 1960. Una ricerca ha rivelato che chi sta davanti al computer per lavoro cambia finestra o programma circa 37 volte all’ora. Dice Adam Gazzaley, neuroscienziato all’Università della California:

“Stiamo introducendo il nostro cervello in un ambiente nuovo e chiedendogli di fare cose per cui non era evoluto. Si vedono già le prime conseguenze”

L’articolo del New York Times racconta le attitudini e i tempi di una famiglia californiana, i Campbell, i cui maschi sono completamente assorbiti dal rapporto con le nuove tecnologie in ogni momento della giornata e spesso della notte, e abbandonano continuamente quello che stanno facendo per passare ad altro. Un bell’articolo di Newsweek del 2009 aveva raccontato il nuovo stile di vita professionale di molti giovani abituati a dividersi tra molte attività e collaborazioni e a passare continuamente da una all’altra, sentendosi continuamente nel posto sbagliato a fare la cosa sbagliata. Gli unici momenti di realizzazione, di consapevolezza di stare facendo la cosa giusta, risultavano essere quelli in cui ci si sposta da un impegno a un altro.  Thomas Campbell ormai sa che quando prende il treno per San Francisco, si troverà offline per 221 secondi durante il percorso in una galleria. L’articolo riferisce una sua motivazione in cui molti si riconosceranno:

Ama la velocità della vita moderna e tenersi aggiornato con le ultime informazioni. “Quando atterrano gli alieni voglio essere il primo a saperlo”.

Fino a 15 anni fa gli scienziati pensavano che lo sviluppo del cervello si esaurisse dopo l’infanzia: adesso sanno che le reti neurali continuano a evolversi, influenzate dalle capacità di apprendimento. Uno dei ricercatori che più si è dedicato alla questione è Eyal Ofir: arrivato a Stanford nel 2004, si è chiesto se un intenso multitasking potesse mutare una caratteristica del cervello fino ad allora considerata immutabile, la capacità degli esseri umani di gestire un solo canale di informazioni alla volta.

Cinquant’anni prima, test simili avevano dimostrato che il cervello poteva a stento gestire due canali, e non può prendere decisioni simultaneamente su due cose diverse. Ophir ha ipotizzato che chi è costretto al multitasking si “riprogrammi” per poter sopportare il carico di lavoro. La sua era una questione personale: aveva passato 7 anni nell’intelligenze Israeliana dopo essere stato estromesso dall’air force, in parte, credeva, perché non era in grado di fare più cose contemporaneamente. Si chiedeva dunque se fosse possibile modificare il suo cervello, allenarlo al multitasking.

Ophir, che si dice spaventato da ciò che ha scoperto, ha elaborato alcuni test per studiare come la tecnologia ha influito sul cervello umano. I soggetti sottoposti a test sono stati separati in due gruppi in base alle loro risposte ad un questionario sul loro uso della tecnologia: i multitaskers e i non multitaskers. Ai soggetti, posti davanti ad un computer, veniva brevemente mostrata l’immagine di alcuni rettangoli rossi; gliene veniva mostrata una seconda simile e gli veniva chiesto di individuare se uno dei rettangoli fosse in una posizione diversa da prima. In un secondo momento venivano aggiunti dei rettangoli blu, e ai soggetti veniva detto di ignorarli e continuare ad osservare quelli rossi, indicando se la loro posizione variasse.

I multitaskers hanno avuto dei risultati significativamente peggiori dei non-multitaskers a riconoscere se la posizione dei rettangoli rossi cambiasse o meno. In altre parole, avevano difficoltà a filtrare i rettangoli blu, l’informazione irrilevante. Ai multitaskers, poi, era necessario più tempo anche per passare da un’attività ad un’altra, ad esempio ci mettevano di più per passare dal distinguere le vocali dalle consonanti al distinguere i numeri dispari da quelli pari. Si è dimostrato che i multitaskers sono meno abili a gestire più problemi insieme.

Altri test fatti a Stanford, un importante centro di ricerca per questo settore in veloce espansione, hanno dimostrato che i multitaskers tendono a cercare nuove informazioni invece che ottenere un riconoscimento per aver utilizzato informazioni più vecchie ma di maggior valore sul lavoro. I risultati illustrano un conflitto tra due funzioni del cervello, che la tecnologia può aver contribuito a intensificare. Una parte del cervello agisce infatti come torre di controllo, aiutando una persona a concentrarsi e stabilire le priorità. Altre parti del cervello, più primitive, come quelle che coordinano la vista e l’udito, richiedono che la persona stia attenta alle nuove informazioni, bombardando la torre di controllo quando sono stimolate.

I ricercatori dicono che c’è una ragione evolutiva a fondamento di questo contrasto. Le funzioni elementari del cervello allertano gli esseri umani del pericolo, come ad esempio un leone nelle vicinanze, prevaricando pensieri più elaborati relativi ad operazioni come quella di costruire una capanna. Nel mondo contemporaneo, il suono d’avviso dell’arrivo di una mail può passare davanti all’obiettivo di scrivere un business plan o di giocare con i figli. C’è un gruppo di persone sempre più numeroso per cui il più leggero cenno al fatto che stia succendendo qualcosa di interessante (o che è possibile che stia succedendo) è come una droga. Non possono ignorarlo.

Uno studio della University of California Irvine ha dimostrato che le persone interrotte nel loro lavoro dall’arrivo di una mail hanno riportato un notevole incremento dei livelli di stress rispetto a quelli rimasti concentrati. Si è dimostrato poi che gli ormoni prodotti dallo stress influiscono, riducendola, sulla memoria a breve termine.

Altre ricerche mostrano poi che alcune persone riescono facilmente e senza danni a gestire contemporaneamente molti canali di informazione, ma che il numero di questi “supertaskers” non supera il 3% della popolazione. Altre ricerche mostrano che l’uso del computer ha dei vantaggi neurologici: l’attività cerebrale è più estesa e di maggior intensità tra le persone che fanno uso di Internet rispetto a quelle che non ne fanno uso. Anche alcuni tipi di video-games influiscono positivamente sul cervello: migliorano la reattività e la capacità di individuare selettivamente un dettaglio in un insieme disordinato.

“Il punto chiave è che il cervello è strutturato per adattarsi”, dice Steven Yantis, un professore di scienze del cervello alla John Hopkins University. “Ed è certo che questo processo di adattamento, la ‘riprogrammazione’ del cervello, non si ferma mai”. Aggiunge però che è presto per capire se i cambiamenti indotti dalla tecnologia siano materialmente diversi da altri del passato.

Ophir è contrario a definire positivi o negativi i cambiamenti cognitivi, anche se l’impatto di questi cambiamenti sulla capacità di analisi e sulla creatività lo preoccupano. E non è preoccupato soltanto degli altri, ma anche di se stesso: “I media mi stanno cambiando” dice “sento questa voce dentro di me che dice: controlla la mail, e la casella vocale. Devo cercare di sopprimerla”.