Cose che ho visto a Cannes/4

Il diario del quarto giorno dell'inviato del Post: Kitano, Cleveland vs Wall Street e uno straordinario film italiano

di Gabriele Niola

Caso unico che non si ripeterà più per tutto il festival questa giornata non è all’insegna del cinema e fin dal mattino, sebbene si vedano film, lo si fa sapendo che il cuore della giornata è un altro.

Non senza fatica riesco ad entrare alla proiezione mattutina di Le Quattro Volte (“Monsieur c’est complet!” dicono i buttafuori e poi era pieno di posti…), film straordinario e soprattutto italiano (evento!) presentato alla Quinzaine des realisateurs, la sezione parallela e totalmente autonoma rispetto al festival, dedicata alle opere piu’ audaci. Giustamente alla fine c’e’ stato uno scroscio di applausi. Michelangelo Frammartino ha realizzato un film a meta’ tra documentario e finzione che sembra una delle ultime opere di Ermanno Olmi o delle prime di De Seta ma senza quel pietismo o moralismo. Si racconta di una realta’ contadina, secondo i suoi tempi e i suoi ritmi, quasi non ci sono parole ma si ride tantissimo grazie ad un montaggio intelligente e acuto. Prima la semina, poi la legna, poi le capre, poi la festa, poi il falò. I tempi dovrebbero essere quattro come suggerisce il titolo ma a me sembravano cinque. L’occhio è estetizzante, capace di cogliere il bello in ogni inquadratura e ogni anfratto, anche quelli che potrebbero sembrare i meno interessanti, e l’idea di raccontare i tempi della vita agreste e’ centrata alla perfezione.

Subito dopo in sala stampa vengo avvicinato da una giornalista straniera in cerca di italiani (non le ho chiesto come mai fosse così evidente la mia nazionalità), le servivano pareri su Draquila da registrare in video. Mi sono prestato, ho detto anche io la mia pensando ad un pubblico più avvezzo all’immagine berlusconiana che alla realtà berlusconiana. Dopo dieci minuti si sono accorti che l’audio non era acceso e ho ricominciato. E poi dicono gli italiani… Finita l’intervista nel lasciare loro i miei dati ho notato che sul taccuino avevano segnato il mio nome come “Gabriele Bondi”, faccio notare l’errore e mi sento rispondere: “Scusa. Non sai quante volte ci sta capitando”.

C’è un altro film molto interessante visto oggi sempre alla Quinzaine des realisateurs, Cleveland vs. Wall Street. Si racconta di come nella cittadina di Cleveland i mutui concessi a tassi di interesse spaventosi abbiano portato in meno di due anni allo sfratto di 20.000 famiglie (cioè 100.000 individui).
 Siccome, nonostante le vittime abbiano tentato di citare in giudizio le banche, queste si sono sempre rifiutate di presentarsi in aula causando rinvii su rinvii, il regista Jean-Stéphane Bron ha inscenato un processo (con veri avvocati, vere parti lese, vera giuria e vero giudice) per realizzare un documentario che raccontasse entrambi i lati della medaglia, sia la difesa che accusa.
Ne esce qualcosa di molto parziale ma, come spesso capita ai documentari a tesi, senza volerlo gli scappano note più significative. In questo caso lo spettatore non-statunitense non può fare a meno di notare come in effetti i truffati abbiano acceso mutui su mutui solo per continuare a spendere, come se loro e il loro paese fossero ancora negli anni ’80.
 In chiusura un video di repertorio del periodo elettorale mostra Barack Obama assieme agli sfrattati del film mentre promette loro giustizia, cambiamento e giusti risarcimenti. Una didascalia subito dopo ci informa che le banche sono state aiutate dallo stato, superando così la crisi, mentre la gente e’ ancora senza casa.

Ma è stato solo nel pomeriggio, più precisamente alle 15.00, che la giornata è arrivata al suo compimento. La quasi totalità dei locali di Cannes aveva sintonizzato i propri televisori sul Gran Premio di Montecarlo, così, in un Irish Pub non vicinissimo ai luoghi del festival, si è riunita praticamente tutta la stampa e tutto il mercato italiano. Personalmente sono uscito di lì alle 16.45. Ho provato ad entrare ad un film ma la sala era piena. Ho perso anche lì. Non è giornata.

In serata c’era una cena offerta dal Trailers Film Festival (ma quanti sono questi festival?). Il catering era lo stesso di altri eventi simili di stampo italiano, mi hanno riconosciuto e stretto la mano. La prossima volta credo ci faremo una foto tutti insieme accanto al pentolone dei ravioli.
L’ultima, attesissima, proiezione della giornata è quella di Outrage di Takeshi Kitano. Lui ha iniziato nei cabaret giapponesi, poi è passato alla televisione come comico inventando Takeshi’s Castle (ovvero i giochi di Mai dire Banzai), poi ha cominciato a fare film polizieshi violenti e poetici diventando un dio del cinema e accumulando palme e leoni. Come se Gene Gnocchi tutto d’un tratto cominciasse a fare film poeticissimi e violenti.
 Negli ultimi anni è andato in crisi creativa e ha fatto tre film sul fatto che non sa più che fare. Con Outrage torna alle origini con una storia di yakuza ma senza quella strana poesia che lo distingueva. Incomprensibilmente c’è solo violenza senza senso, un’uccisione efferata dopo l’altra mentre manca totalmenta quel’altro lato che aveva reso Kitano l’idolo dei festival, cioè la sua anima. 
Forse aveva ragione quando diceva di non sapere più che fare. Domani lo intervisto e glielo chiedo.