Uscire dall’euro?

Una procedura ufficiale non esiste, e questo rende tutto più delicato e imprevedibile

Il crollo ai minimi storici della moneta unica europea, il massiccio pacchetto di aiuti varato per salvare la Grecia, le operazioni speculative su altri paesi dai conti in dissesto. I vertici infiniti tra capi di stato e di governo, le proteste degli elettori che non tollerano che i loro soldi finiscano al governo di Atene o di Lisbona o di Roma. Il rischio – mai così concreto – che se uno dei paesi dell’eurozona dovesse sprofondare nel baratro, gli altri sarebbero condannati a seguirlo. Come in una carovana di alpinisti: cade uno, cadono tutti. E se qualcuno dovesse decidere di farsi da parte, magari per darsi una politica economica priva dei vincoli comunitari? È possibile, tecnicamente, lasciare la moneta unica europea? Luigi Grassia sulla Stampa di oggi tenta di dare una risposta a tante di queste domande.

Innanzitutto no, non esiste una procedura ufficiale per lasciare l’euro. Però questo vuol dire poco: «non esisteva nemmeno una procedura perché uno stato statunitense chiedesse la secessione dall’unione». Invece è successo. Le ragioni per un’uscita dall’euro sono più che concrete, per alcuni paesi. Prendiamo la stessa Grecia, per esempio.

La Grecia potrebbe voler uscire dall’euro perché non riesce a rispettare i vincoli di bilancio imposti per restare; trovandosi con le strade in preda a disordini e scontri costanti, il governo potrebbe decidere che è meglio lasciar perdere l’austerità, riprendersi la sovranità monetaria e battere una moneta nazionale che sia libera di svalutarsi quanto vuole, anche a costo di subire una iper-inflazione come quella della Repubblica di Weimar negli anni Venti.

La Grecia non è l’unico esempio di paese che potrebbe essere interessato a lasciare l’euro. Grassia fa l’esempio della Germania, stufa di pagare per i paesi incapaci di tenere i conti in ordine. Il Guardian racconta che Sarkozy ha minacciato direttamente l’uscita della Francia dalla moneta unica, durante i vertici per discutere del pacchetto di salvataggio. Si tratterebbe di addii di tutt’altro peso.

Ovviamente senza la Germania non si avrebbe la semplice uscita di uno stato ma la fine dell’euro. Il prezzo che i tedeschi pagherebbero per questa scelta sarebbe (fra le altre cose) una iper-valutazione del rinato marco, che potrebbe mandare fuori mercato le merci tedesche destinate all’esport.

Ma allora, venendo al sodo, la procedura quale sarebbe? Grassia parla di «qualcosa di simile a una dissezione chirurgica senza anestesia». Se per fare l’euro ci sono voluti anni di difficili trattative su migliaia di questioni, lasciarlo sarebbe questione di un attimo. In assenza di una road map ufficiale, tutto è nelle mani dei singoli paesi e dei singoli governi: se davvero Spagna, Portogallo o Italia dovessero collassare, uno qualsiasi degli altri governi dell’eurozona potrebbe decidere unilateralmente di andare per conto suo. E non ci sarebbe grosso tempo per tentare di ridiscutere tutto: «le circostanze economiche drammatiche ed eccezionali imporrebbero la massima fretta, non lunghi negoziati».

Intanto però, nonostante tutti i problemi di questi giorni, ci sono molti più paesi che tentano di entrare nell’euro, rispetto a quanti vogliono uscirne.

L’ultimo paese a conquistare questo diritto è l’Estonia, che giorni fa ha ottenuto il primo via libera tecnico all’ingresso nella moneta comune nel 2011. L’Estonia si aggiungerà ai sedici attuali (se nel frattempo qualcuno non se ne sarà andato…).