Divorare barbabietole di vita

Il primo capitolo di "Spaesamento", il nuovo libro di Giorgio Vasta sulla sua città

Nella collana Contromano di Laterza, che sovente ospita affascinanti racconti di città italiane viste da scrittori giovani o quasi giovani, è appena uscito “Spaesamento” di Giorgio Vasta. Vasta è palermitano ma vive da molti anni a Torino. In “Spaesamento”, gli capita di tornare tre giorni nella sua città, e di fare molti pensieri, su palermo e sull’Italia. Tutto comincia così:

All’inizio c’è un pezzetto di carta che stropiccio tra le dita. Lo premo con i polpastrelli contro il palmo fino a quando decido di liberarmene; il tapis roulant è ancora fermo nel rimbombo dell’aeroporto e questa carta d’imbarco bianca e verde con i numeri del volo, del gate e del posto non mi serve più, mentre disfarmene, come tutte le volte in cui arrivo a Palermo, mi serve ad accettare il ritorno. Allora raggiungo un cestino, uno di quelli con la bocca circolare larga e luminosa, il bordo laccato in tre colori, talmente moderno e internazionale – l’etica trasformata in tecnologia dello smaltimento consapevole – che per un momento esito, mi sembra troppo. In alto il cestino è ulteriormente tripartito: dal centro tre raggi suddividono lo spazio interno in altrettanti scomparti ogni parola moltiplicata in altre lingue. A un passo da questo orologio della decenza organizzata, nel momento in cui mi sporgo sul cratere e libero la pallottolina di carta nel suo specifico varco, vedo che all’interno del cestino invece di tre diversi sacchetti ce n’è uno solo in fondo al quale i rifiuti si raccolgono senza distinzioni, così che adesso la pallottolina giace tra lattine incavate sacchetti di patatine una copia del «Giornale di Sicilia» gomme da masticare una buccia di banana un torsolo di mela, il tutto mescolato a una specie di composto detritico ancestrale.

Quando recupero il bagaglio e mi avvio verso il pullman che porta in città ho addosso un sentimento che è come una categoria affettiva, la rabbia del ritorno, e lungo la strada, seduto truce con la testa contro il finestrino, sento questa rabbia trasformarsi in malumore, un siero grigio che mi scorre dentro lentamente, e poi il malumore si liofilizza in malinconia e la malinconia, appena in via Libertà scendo dal pullman, è già diventata natura, il sentimento normale del tempo che trascorro a Palermo. Una rabbia bianca.

Sono le nove di sera e zaino in spalla mi dirigo verso casa dei miei osservando lungo le strade i mutamenti: il dehors della pizzeria sotto i portici imbracato da una cerata bianca che somiglia a una camicia di forza; l’insegna della pasticceria all’angolo rinnovata in una lampeggiante grafica al neon; l’edicola definitivamente abbandonata.

A Palermo non vivo più da quindici anni. Ci torno con una frequenza irregolare. Posso non andarci per un anno intero e poi due volte in un mese; stavolta sono via da dieci mesi. Mi sono rimasti tre giorni di ferie e ho deciso di passarli qui. Nessun progetto, nessuna intenzione, soltanto il bisogno di ridurre tutto al minimo. Perché gli ultimi mesi di percezione delle cose sono stati esacerbazione e smaltimento, l’esperienza incomprensibile di un luogo, l’Italia, che è mortificazione di ogni impulso.

Arrivato al 130 di via Sciuti vedo che ai lati del portone della casa in cui ho vissuto per venticinque anni hanno costruito due piccole aiuole in cemento: dentro ci sono terra e pietrisco, niente fiori né piante.

La portineria è sempre fresca e le molle del portone sono cambiate – fine del frastuono metallico alla chiusura, al suon posto uno scatto discreto, il rumore di quando si mette l’indice davanti alle labbra e si fa shhh.
Prendo l’ascensore e salgo al terzo piano. Il pianerottolo grande e giallo, acusticamente perfetto.

La casa è vuota, mio padre e mia madre sono ancora in vacanza. Al semibuio individuo le levette del quadro elettrico, le porto in alto e poi accendo le luci. Raggiungo quella che era la mia camera, sollevo la serranda e svuoto lo zaino. Per praticità e per pigrizia non sistemo niente nei cassetti ma lascio biancheria e magliette sopra la scrivania. In cucina metto un paio di bottiglie d’acqua nel frigo, cerco da qualche parte qualcosa da mangiare. Trovo solo vecchi biscotti col sesamo e li lascio dove sono. Torno in camera, mi distendo sul materasso nudo e guardo la televisione. Repliche e repliche di repliche, un montaggio di frammenti televisivi provenienti da epoche diverse – un po’ di bianco e nero, la metamorfosi del colore tra anni Ottanta e Novanta, le facce scomparse e quelle eterne.

Mi assopisco.

Quando mi sveglio stanno trasmettendo un documentario. Sto per spegnere e rimettermi a dormire ma qualcosa mi incuriosisce: le immagini sono sporche, girate in esterni, i toni non televisivi. Resto a guardare. Si parla del carotaggio delle rocce tenaci. Mi aspettavo un programma gassoso, da dormiveglia, e invece mi ritrovo ad ascoltare un geologo che con genuina cadenza toscana racconta di tutte quelle volte in cui, a scopi ingegneristici archeologici o paleontologici, diventa necessario compiere prelievi di campioni di roccia estratti dagli abissi di un terreno, fino a centinaia di metri di profondità, usando perforatrici idrauliche che riportano in superficie «carote» di materia, cilindri di roccia che verranno sottoposti ad analisi.

Mentre le immagini mostrano il corpo straordinario di un rettile meccanico che immerge la testa nel sottosuolo ostile, il geologo toscano parla ancora di pressiometri e compressori per la perforazione a rotopercussione, approfondendo il significato della geognostica, la conoscenza degli strati profondi tramite sondaggio di esemplari minuti di materia – le risorse del ragionamento induttivo aristotelico applicate allo studio dei minerali.

Quando la trasmissione geologica si conclude riparte un programma composto da spezzoni televisivi degli anni passati, da Studio Uno a Canzonissima a Senza rete.

Dopotutto, penso spegnendo, anche questo è un carotaggio: si prelevano particelle di tv del passato estraendole dal silenzio degli archivi e le si sottopone all’analisi dello sguardo del telespettatore contemporaneo.

Mentre cerco in un armadio un paio di lenzuola mi dico che in effetti questo meccanismo è molto più presente di quanto sembri. Un prelievo di sangue in un laboratorio di analisi è di fatto un carotaggio di plasma e cellule varie, un campione impercettibile attraverso il quale studiare l’intero flusso ematico. Anche una biopsia è un carotaggio: una porzione di tessuto sottratta al corpo e sottoposta a un’indagine. E poi, penso a luce già spenta – le serrande sgranate e il ventilatore a pale che da qui sotto somiglia a un orologio frulla-tempo –, questo meccanismo vale anche in circostanze simboliche: per esempio nelle storie d’amore c’è sempre un momento nel quale ci si domanda reciprocamente l’equivalente di un campione – nei vecchi romanzi è un pegno, una prova inequivocabile della propria passione e della sua autenticità –, la dimostrazione prima e ultima, specifica ed estendibile nel tempo, del proprio sentimento. Fuori dai vecchi romanzi – e specialmente oggi, nella secolarizzazione del desiderio – il campione può anche consistere in una o più parole: dalla sentenza insieme privatissima e canonica del Ti amo fino alle frasi più acrobaticamente personali.

In ogni caso si trivella e ci si trivella di continuo; pensandoci bene sarebbe possibile carotare tutto il mondo, riempirlo di cannucce estrattive come un san Sebastiano trafitto e tirarne fuori, anche solo aspirando con le labbra, bocconi di conoscenza, la sostanza amarissima che vive nel midollo delle cose.

Il sogno di un mondo-riccio – il globo interamente ricoperto di aculei cavi alla cui estremità sono incollate bocche di tutti i tipi, maschili femminili vecchie e infantili – esplode di colpo in un rumore di ferri che si spezzano.
Mi sollevo sul letto e accendo la luce. Il ventilatore a soffitto si è staccato dal suo perno e adesso pencola un metro sopra la mia testa con le sue tre alette bianche in rotazione sempre più depressa. Frammenti di plastica e metallo sono sparsi tra il letto e il pavimento.

Mi riprendo, recupero una scala dallo sgabuzzino e cerco di capire cos’è successo.

Viti spanate, ghiere esauste, manutenzione inesistente e un’accensione improvvisa che deve avere colto di sorpresa l’apparecchio. Mi rendo conto di poter fare ben poco: accertarmi che nessun filo scoperto penda dalla carcassa, spostare il letto verso la finestra e accettare il caldo.

Riporto la scala nello sgabuzzino, mi risistemo a letto e per un’ora sogno esattamente la stessa stanza nella quale sto dormendo ma con il letto ancora sotto il ventilatore che cigola e oscilla nel buio e accumula velocità come una trottola pronta a precipitare a piombo su di me per sfondarmi il petto e carotarmi il cuore. Poi, perché anche l’ansia inutile ha dei limiti fisiologici, mi addormento profondamente.

Con i primi rumori della strada, la prima luce e il caldo che aumenta, mi sveglio ma resto a letto. Il ventilatore a pale sfilato dal suo alveo e impiccato a un cavetto che lo allunga verso il basso, scomposto e oscillante pianissimo nell’alba, è di una tenerezza struggente. Eppure, sapere di non poter fare niente mi rassicura: sta per cominciare il fine settimana e se anche volessi provare a riparare o a far riparare il congegno non saprei proprio come; convivere con questa libellula che sporge mortificata dal soffitto è preferibile al tentativo di riportarla in vita. E poi mi piace l’idea di qualcosa che comincia con una macchina che si rompe.

Mi alzo e vado alla finestra. Via Sciuti è ancora semideserta, una macchina ogni tanto e un paio di signori anziani che portano i cani a spasso per il giardino pubblico di fronte casa. Guardo oltre il davanzale, a piombo, le mattonelle rosse della casa di riposo che sta al piano rialzato. Sulla terrazza c’è un vecchio, ha un pigiama blu, è in piedi davanti alla ringhiera, guarda verso il giardino al di là della carreggiata, ha la testa che quasi gli scompare nei cespugli di buganvillee. Compare una donna vestita di bianco, appoggia una mano sul braccio del vecchio insonne e lo riporta dentro.

Continuo a guardare giù.

Volendo potrei carotare gli scantinati e le fondamenta del condominio e recuperare campioni di materia profonda in grado di raccontarmi la storia geofisica di questo luogo e stanarne i penati e interrogarli per comprendere la consistenza di almeno una parte della famigerata identità locale, la conoscenza profonda della struttura di uno stabile da estendere a quella dell’intero abitato, del quartiere e di tutta la città. E sempre a forza di sguardo potrei carotare il vecchio qui sotto, la mia vecchiaia futura, il tempo, estrarne un segmento dal flusso, o un pigmento, a seconda del modo in cui si decide di intendere il tempo, se come una retta o come una sostanza, e studiare quella peculiare durata così da ricavarne conseguenze significative per l’epoca intera.

Dai due lati della via arrivano i rumori delle saracinesche e il parlottio basso e veloce di chi comincia a organizzare il lavoro della giornata e io penso che se condizione del carotaggio è la casualità del campione prelevato allora anche qui, adesso, io posso diventare una macchina da prelievo, una perforatrice mobile, ed estrarre dallo spazio e dal tempo quelle carote di realtà utili, forse, a farmi un’idea di dove sono, a descrivere la forma di questo spaesamento. Perché ho tutto quello che serve: uno spazio – Palermo – e un tempo – questi ultimi tre giorni di vacanza: la realtà normale, la realtà casuale e la presunzione e la speranza di poter estendere lo studio della parte alla comprensione del tutto.

E dunque vado in bagno, mi lavo, mi preparo ed esco con dentro l’orgoglio limpido e misurato della sonda umana che se ne va per la città a registrare fenomeni, spalancato come una bocca che vuole divorare barbabietole di vita.