Ai tempi dei francobolli

Un nuovo libro contesta l'invadenza dell'e-mail e racconta come era la posta, un tempo

È uscito un libro che approfondisce un tema frequente nelle discussioni revisioniste su internet di questi anni: l’ipotesi che la posta elettronica ci rovini la vita. Che la sua insistenza impedisca la concentrazione e generi perdita di tempo e dipendenza. Il libro si chiama “La tirannia delle e-mail” (Codice Edizioni) e l’ha scritto John Freeman, direttore della rivista Granta. Ma il discorso sul ruolo dell’e-mail nelle nostre società è preceduto da un’affascinante ricostruzione della storia della posta nella storia del mondo.

Inizialmente la posta era uno strumento riservato a pochi: re, governanti e militari. Non è difficile comprenderne l’utilità. Un servizio postale ben organizzato teneva unite enormi distese di territorio, annunciava notizie di battaglie vinte o perse, raccoglieva informazioni riservate e poteva talvolta recapitare messaggi di amor cortese. Non a caso tutti i più grandi imperi erano dotati di un sistema per il trasporto di lettere da un luogo a quello vicino: aztechi, incas, cinesi, assiri, romani, la dinastia indiana dei Maurya. In molti casi solo gli ufficiali di governo potevano utilizzare il servizio. Non si trattava di un divieto così grave: d’altronde la maggior parte della gente non sapeva né leggere né scrivere. Se le circostanze lo richiedevano, capitava che qualcuno leggesse o scrivesse lettere per conto di altri.

Nel VI secolo a.C. l’impero persiano sotto Ciro il Grande vantava un efficiente servizio postale in grado di trasportare la corrispondenza coprendo distanze anche di 150 chilometri al giorno. L’uomo che portava il messaggio avrebbe galoppato da una stazione alla successiva, dove avrebbe scambiato il cavallo affaticato con uno più fresco, per poi, dopo un breve riposo, riprendere il viaggio. Erodoto cantava le lodi di questo sistema quando scrisse nelle sue Storie un commento ora impresso sul Farley Post Office Building di New York: «E non c’è neve, né pioggia, né caldo, né notte, le quali impediscano mai un corriere dal percorrere, il più velocemente possibile, quel tratto di strada che gli è assegnato».

Il servizio postale persiano però, come molti altri, non era una rete concepita per comunicare buone notizie: era uno strumento che serviva a fare la guerra e a controllare una popolazione in continua espansione, sistematicamente spiata dai corrieri postali i quali poi riferivano le informazioni ottenute.Tutti gli imperatori lo facevano. Il mongolo Kublai Khan aveva a sua disposizione più di 10 000 stazioni di posta e qualcosa come 50 000 cavalli, e la gente che viveva nei pressi delle stazioni sapeva di doversi tenere alla larga dai corrieri. Il califfo Abu Ja’far al-Mansur, che nell’VIII secolo regnò sull’impero arabo, espresse molto chiaramente l’importanza militare della posta: «Il mio trono poggia su quattro colonne e il mio governo su quattro uomini: un irreprensibile cadi [giudice], un energico capo della polizia, un onesto ministro delle finanze e un fedele direttore della posta, che mi fornisce informazioni vere su tutto». Nell’860, il califfato islamico vantava 930 stazioni di posta.

Attraverso questi primi e ufficiali sistemi postali ufficiali venivano diffuse le notizie di vittorie militari, nonché le disposizioni per il compimento di massacri. Il Libro di Ester, come ci ricorda Laurin Zilliacus, descrive «l’uso dei corrieri postali per ordinare la strage degli ebrei in tutto il territorio governato dai persiani, e poi l’immediata diramazione del contrordine che li salvava e capovolgeva la situazione a danno dei loro persecutori». «Mardocheo scrisse a nome del re [Assuero] e sigillò le lettere coll’anello regale. Poi le spedì per mezzo di corrieri ufficiali» recitano i versetti biblici «equipaggiati con i veloci cavalli di razza dell’amministrazione». Inoltre, tutti i libri del NuovoTestamento,tranne iVangeli,sono scritti in forma epistolare.

I cavalli però non erano gli unici a trasportare la corrispondenza. Gli arabi introdussero per primi l’uso dei piccioni. Le città stato greche dedicarono alcuni tra i più sublimi poemi alle gesta strabilianti dei loro corridori, gli emerodromi, a cui veniva spesso affidata la consegna dei messaggi più importanti. Filonide, corriere e ispettore di Alessandro Magno, una volta andò di corsa da Sicione a Elis (240 chilometri) in un solo giorno. Le famiglie più ricche possedevano scuderie di corridori, e dato che quasi tutto il lavoro veniva svolto da schiavi, i cittadini benestanti avevano molto tempo libero a disposizione, che impiegavano per lo più scambiandosi pensieri e pettegolezzi per mezzo di lettere. Non deve sorprendere quindi che all’apice della civiltà greca si sia prodotto un ingente volume di corrispondenza.

L’imperatore Augusto istituì uno dei più imponenti sistemi postali dell’antichità. Faceva affidamento sulla superiorità della rete stradale romana, con punti di sosta, le stationes, in cui i corrieri potevano riposare e cambiare i cavalli. Per questa ragione il termine “posta” deriva dal latino posita, “luoghi, o posti, fissati”. La corrispondenza viaggiava su cavalli e carri, e i postini dell’epoca portavano sul copricapo delle piume, che simboleggiavano la velocità. Con il tempo il servizio fu esteso al pubblico, quantomeno a coloro che potevano permetterselo e sapevano scrivere. Con la caduta dell’impero romano, la rete postale andò in rovina, e questo significò il venir meno di comunicazioni organizzate per l’intera Europa.

Riempire i vuoti lasciati dai governi

Dopo la fine dell’impero romano le corporazioni dei mestieri, le imprese di commercio, i signori feudali e gli eserciti predatori mantennero sistemi di corrispondenza privati, ma soltanto la Chiesa cattolica possedeva un’organizzazione paragonabile al servizio impostato dagli imperatori romani. Durante il Medioevo, lettere apostoliche e pastorali «divulgavano delibere dottrinali, decisioni dei sinodi episcopali, questioni politiche inerenti il potere temporale», come ha scritto Charles Bazerman, docente alla University of California. Anche i monaci dei sempre più numerosi ordini si tenevano in contatto fra loro grazie ai conversi che si recavano da un monastero all’altro, in viaggi che potevano durare parecchi mesi, portando dei rotoli di pergamena chiamati rotulae, una prima rudimentale versione delle mailing list. Uno di questi rotoli poteva partire da un monastero centrale e contenere, poniamo, una semplice lista di confratelli o benefattori morti di cui era opportuno ricordare il nome. In ciascuno dei monasteri in cui faceva tappa vi sarebbe stato aggiunto un supplemento, con un messaggio di avvenuta ricezione da parte dell’abate locale, e forse qualche commento o notizie ulteriori. Queste appendici venivano apposte per mezzo di «sottili strisce di pergamena avvoltolata, così che il rotolo rimaneva un foglio singolo sempre più lungo», come ci spiega Laurin Zilliacus. Una rotula del 1122 d.C. misura 8,50 metri di lunghezza e 25 centimetri di larghezza, ed è fittamente scritta su entrambi i lati: contiene una notizia, la morte dell’abate San Vitale, a cui fanno seguito 206 interventi che gli rendono omaggio, alcuni sottoforma di preghiera altri di poesia.

In Europa, per parecchi secoli, solo una famiglia riuscì a gestire un servizio postale fuori dall’influenza dei governi: il casato principesco dei Thurn und Taxis trasportava la posta da Roma a Bruxelles e altrove. L’attività era stata avviata da Ruggiano de Tassis, che aveva fondato un servizio postale in Italia. Nei primi del Cinquecento la famiglia istituì una rete che aveva sede a Bruxelles e raggiungeva per corriere Roma, Napoli, la Spagna, la Germania e la Francia. Il servizio si protrasse fino al XVIII secolo, quando fu acquistato da un erede al trono spagnolo.

Ma la storia della posta non concerne solo eventi del passato. È una saga continua di tentativi umani volti a rendere più piccolo il mondo migliorando la comunicazione della parola scritta (Dimitry Kandaouroff, La posta: una storia affascinante)

Varcare le tenebre

Alla posta ci vollero altri tre secoli per diventare qualcosa di simile a ciò che conosciamo oggi. La maggior parte della gente era analfabeta, e la carta costosissima. Una donna che avesse voluto spedire una lettera dalle colonie americane alla Gran Bretagna nel 1650, ad esempio, aveva davanti a sé un’impresa davvero eccezionale. In From Pillar to Post Laurin Zilliacus immagina il viaggio di una lettera del genere. La donna avrebbe dovuto prendere un pezzo di carta di stracci, scriverci il proprio messaggio, ripiegarlo quattro o cinque volte, legarlo con la seta e sigillarlo con la cera, e magari apporvi una croce per far sapere che la missiva viaggiava sotto la protezione della Provvidenza. Poi c’era il problema dell’indirizzo del ricevente, che poteva richiedere un certo spazio: «Al mio nobilissimo fratello, signor John Miles Breton» così scrisse una donna, «presso il negozio di barbiere che sta sulla strada rialzata a ridosso della taverna della Piazza Grande all’ombra della Torre del Municipio di Stoccolma, la presente».

Dopo l’avrebbe portata alla taverna locale – il primo corriere americano, Richard Fairbanks, come lavoro principale spillava birra – quindi la lettera sarebbe stata caricata a bordo di un’imbarcazione commerciale e avrebbe sopportato un faticoso tragitto lungo i mari con tutte le varie tappe intermedie. Era un’operazione costosa e con ogni probabilità destinata al fallimento. «Le lettere erano considerate dei tesori» scrive Frances Austin in Letter Writing in a Cornish Community in the 1790s; «venivano lette ai vicini di casa e fatte passare di mano in mano fra gli amici. Circolavano particolari di notizie, spesso ripetuti parola per parola». In un caso Frances Austin scoprì che una donna aveva trascritto una lettera del fratello e ne aveva spedito una copia a ciascuno degli altri fratelli e sorelle.

Immaginiamo come doveva essere vivere a quell’epoca. Chi emigrava in un paese straniero e lasciava dei parenti a casa, con ogni probabilità non li avrebbe rivisti mai più. A fine giornata, dopo aver cenato a lume di candela ed essersi coricati in un buio nero come la pece sotto un cielo disseminato di stelle e non ancora contaminato dai bagliori elettrici di lontane città o dalle intermittenze luminose dei satelliti, ci si sarebbe sentiti profondamente soli, a parte le persone che si avevano intorno. Qualcuno che bussava alla porta poteva significare pericolo o cattive notizie: se si fosse trattato dell’arrivo di una lettera, invece sarebbe probabilmente sembrato un miracolo. «Le lettere consegnate nelle aree rurali si sono straordinariamente moltiplicate» scriveva nel 1884 Richard Jeffries in The Life of the Fields, «ma non per questo la gente di campagna le tratta in modo sbrigativo. L’arrivo di una missiva costituisce ancora un evento; viene letta due o tre volte, tenuta in una tasca e poi ancora ripetutamente guardata e riguardata».