Silvio, questa casa aspetta te

Il direttore del Foglio fa appello ai sentimenti del Presidente del Consiglio

“Ridateci il Cav. scomparso in questa tetra, interminabile litigata”: è il titolo dell’editoriale settimanale (anche qui) di Giuliano Ferrara sul Foglio del lunedì, per il resto dedicato alla rassegna del meglio della stampa dei giorni passati.

Certe volte quel mostro di bravura e di simpatia che fu il Cav. è irriconoscibile. Che facciamo, presidente? Passiamo i prossimi tre anni a sparlare di Bocchino e a straparlare di Fini, a litigare, a guardarci in cagnesco? A saggiare, usando anche il buco della serratura dei retroscena, il grado di amicizia o di fedeltà che corre tra lei e Fini? Ancora suocere, e altre parentele? Oppure, dietro l’angolo, ci aspetta uno show-down incomprensibile, una rottura che mandi tutto in fumo e certifichi il fallimento di una solida maggioranza politica, di una leadership riconosciuta?

Non è la prima volta – anzi – che il direttore del Foglio fa appello al Presidente del Consiglio chiedendogli di riassumere quel ruolo su cui il Foglio aveva investito nei primi anni dell’era berlusconiana. Ma nei precedenti richiami Ferrara aveva indicato soprattutto un modello di responsabilità politica e istituzionale: fare le riforme, riassumere il comando, far fuori i consiglieri servili e inaffidabili. Oggi è più una questione di sentimenti, riconoscenze e lealtà personali.

Tutto sommato direi che il Cav. dovrebbe preoccuparsi, per una volta, della sua lealtà verso gli altri, verso chi gli vuol bene e lo stima e lo sostiene in modo non servile. Deve essere leale verso la propria storia, che molti di noi hanno condiviso partendo da presupposti tutti diversi tra loro. Deve essere leale verso chi gli ha dato una mano, ricambiato alla pari, sapendo che in ballo non c’era il suo Ego, un suo capriccio, un inno salmodiante che esalta in forma cultuale la sua indispensabilità, ma questo paese, questo tempo, questa storia di tristizie, di faziosità, di vendette, di inganni e ipocrisie che aveva travolto la prima Repubblica.

Dopo aver insistito sul cambiamento in meglio imposto alla storia politica italiana dall’arrivo di Berlusconi, l’editoriale torna sui rapporti umani.

Ma Berlusconi non è una statua. Non è di pietra. Non va trattato come un simbolo. Va scosso con affetto e ragionevolezza, come hanno usato fare in passato i Confalonieri, i Letta e altri suoi pochi veri amici. Va messo di fronte alla responsabilità di riconoscersi, di piacersi al suo meglio, di rifarsi al suo clamoroso buonumore, alla sua sapienziale capacità di attacco e di interlocuzione, che sa separare il fondo limaccioso dei sentimenti di dispetto dalle esigenze della socievolezza, dell’ottimismo, del progetto positivo, aperto.

E per finire:

Berlusconi deve restituirci sé stesso per come lo abbiamo conosciuto, la sua megalomania è impervia ma sontuosa, in definitiva accettabile,  perché sempre sorridente, benevola, ironica. La torvaggine non è mai stata parte del suo mondo, è sempre stata soltanto un’invenzione dei suoi avversari più faziosi, un modo di cancellarlo e negarlo. Il Cav. deve dimostrare ai suoi amici che i suoi nemici non sono riusciti ad aver ragione della sua eccellenza di carattere, della sua bonomia versatile, dei suoi doni e talenti di persona fiduciosa e anche un poco noncurante.