Yucca, la montagna radioattiva

Il saggio di John D'Agata racconta la storia di un'idea incredibile: riempire una montagna di scorie nucleari

È uscito per ISBN Edizioni La montagna — I nostri prossimi diecimila anni con le scorie nucleari, il saggio di John D’Agata sulla Yucca Mountain, la montagna protagonista di una delle idee più incredibili che l’uomo abbia mai avuto.

A 160 chilometri da Las Vegas, nel deserto del Nevada, l’interno della Yucca Mountain era il luogo preposto a ospitare 77mila tonnellate di scorie nucleari da ogni parte degli Stati Uniti. Qualche settimana fa l’amministrazione Obama ha accantonato il progetto, ma forse solo temporaneamente, anche perché non ci sono altre soluzioni in vista. Partito più di trent’anni fa e approvato sotto George W. Bush, il progetto ha sollevato parecchie critiche: sarebbero serviti un centinaio d’anni per portarlo a termine e i rischi non sarebbero stati nulli.

Non avevo pianificato di restare. Quello che avevo pianificato di fare era aiutare mia madre a trovare la sua nuova casa. Aiutarla a trasferirsi. Sistemare la mamma. Ma nel giro di un paio di settimane lei si mise a frequentare un gruppo locale di attivisti ambientalisti con i quali si incontrava una volta ogni quindici giorni in un bar vicino a casa chiamato Viva Lost Wages, dove amavano guardare c-span. Un giorno la accompagnai a un incontro fuori programma perché un’email in grassetto proclamava che quel meeting era «essenziale se ti piace vivere a las vegas!».

«Stiamo per vedere una persona che, da sola, salverà la nostra città» disse il leader del gruppo della mamma, quando arrivammo. Guardai in alto verso c-span. Il barista alzò al massimo il volume della tv. Su un podio sopra il jukebox del Lost Wages c’era il senatore senior del Nevada, il democratico Harry Reid. «Quello di cui stiamo parlando oggi» disse il democratico Harry Reid «è la più grossa minaccia per il futuro della nostra nazione.» «Falli neri, Harry!» disse il barista.

Qualcun altro disse: «Sì!».

Allora sapevo poco di Harry Reid. Sapevo che era appena stato definito da un settimanale locale «il nostro politico preferito in Nevada» per via di quello che lo stesso settimanale chiamava «il suo costante e riservato decoro». Avevo anche visto Reid alla stazione di servizio dove mi feci cambiare l’olio, mi fissava severo dalla copertina di Las Vegas Life, su cui era stato definito «l’uomo più potente della città» per via della «sua coraggiosa disponibilità a scendere a compromessi pur di ottenere risultati». Persino la mamma, che di solito non si fida di nessuno, tornò a casa dal suo primo incontro con il gruppo di ambientalisti dicendo che Harry Reid era «la migliore speranza che questa città ha per fermare il progetto Yucca Mountain».

Cos’è il progetto Yucca Mountain? chiesi alla mamma. «Guarda» mi disse.

«Fin da quando sono stato eletto al Congresso» aveva detto Reid ai suoi elettori qualche tempo prima, quell’estate «mi sono battuto contro Yucca Mountain poiché minaccia la salute e la sicurezza di tutti gli abitanti del nostro stato. È un progetto incompleto, difettoso e tutt’altro che sicuro. Quella montagna è il peggior posto in America in cui stoccare le scorie nucleari, ed è per questo che mi impegnerò affinché ciò non accada mai.»

L’idea di immagazzinare le scorie nucleari all’interno della Yucca Mountain era nata circa trent’anni prima, al culmine delle proteste politiche contro l’energia nucleare. Per cercare di cambiare l’opinione pubblica sul nucleare, l’American Nuclear Energy Council, la lobby delle industrie del nucleare, suggerì ai suoi clienti che gli americani avrebbero avuto meno paura delle centrali nucleari se avessero saputo che le scorie radioattive venivano stoccate in modo sicuro.
«È di questo» dissero «che gli americani hanno paura… non dell’energia che produciamo.»
Così nel 1980, un anno dopo il surriscaldamento in una centrale nucleare di Three Mile Island, l’American Nuclear Energy Council iniziò a esercitare pressioni sul Congresso affinché introducesse una legge che stabilisse che le scorie nucleari prodotte nelle centrali dei suoi clienti venissero stoccate dal governo federale in un unico sito nazionale.
«Ovviamente non c’è alcun nesso fra i pericoli legati ai rifiuti radioattivi e i pericoli legati a un meltdown» ci spiegò al Viva il leader del gruppo di ambientalisti della mamma. «Voglio dire, è chiaro che sia gli uni sia gli altri possono farci morire, ma è questa l’unica cosa che hanno in comune. I lobbisti sono stati molto furbi. Hanno puntato sulla paura, condivisa da tutti, di qualunque cosa in cui compaia la parola “nucleare”. E così la lobby del nucleare – la vera causa delle ansie degli americani – si è munita di grafico e si è messa a spiegare nei dettagli i pericoli del sottoprodotto della sua stessa industria, il tutto nel tentativo di sgombrare il campo a un nuovo tipo di minaccia. È stato perverso. Ma noi ci siamo cascati. E quando hanno lanciato la proposta di stoccare le scorie radioattive, noi tutti a pensare: “Sia ringraziato il cielo! Una soluzione!”, quando invece ovviamente era un imbroglio. Ci stavano soltanto togliendo il problema da sotto gli occhi.»
Per spostare momentaneamente la nostra attenzione da quel problema, l’American Nuclear Energy Council intraprese una campagna per convincere gli americani che l’energia nucleare era «sicura al 110%» – purché le scorie finissero altrove.

Secondo l’analisi di Sarah Ginsburg in Nuclear Waste Disposal, l’American Nuclear Energy Council passò diciotto mesi a fare pres- sione per lo smaltimento delle scorie nucleari impiegando «squadre speciali di verità scientifica» sia alla Camera che al Senato e offrendo «assistenza» ai legislatori durante «la classificazione degli aspetti contrastanti legati all’energia nucleare e alle scorie».
Dopo quei seminari, il deputato James Wright, portavoce della Camera dei Rappresentanti, convinse i suoi colleghi che uno dei tre siti proposti – sito che, guarda caso, si trovava in Texas, suo stato natale – non sarebbe stato adatto per lo stoccaggio delle scorie nucleari. Anche il deputato Tom Foley, leader della maggioranza, convinse i suoi colleghi che un altro dei siti proposti – quello che si trovava nel suo stato natale di Washington – non sarebbe in alcun modo stato adatto per lo stoccaggio delle scorie nucleari.
E così lo stato del Nevada, al quarantaquattresimo posto per densità di popolazione e con i deputati meno influenti al Congresso, non ebbe alcuna chance.
Come disse all’epoca il portavoce del Dipartimento di Stato: «In Nevada vivono attualmente un milione di persone, mentre negli altri quarantanove stati ne vivono 245 milioni… Ergo, ci sono 245 milioni di ragioni per restare in Nevada e solo un milione per spostarsi altrove».
Il 22 novembre 1982 il senatore James McClure, membro di più alto grado dell’Energy and Natural Resources Committee, presentò un disegno di legge scritto dall’American Nuclear Energy Council in cui si richiedeva lo smaltimento delle scorie nucleari su terreno federale. Lo fece accettare dal comitato in un’ora e mezzo e poi lo spedì in aula per un voto accelerato.
Vi arrivò la sera del 21 dicembre, qualche ora prima che il Senato sospendesse i lavori per la pausa natalizia.
Nel giro di tredici minuti, e senza un solo minuto di dibattito, il Nuclear Waste Policy Act venne approvato.
«Mi piacerebbe conoscere un senatore» disse uno degli spettatori quella sera «che sappia almeno dirci che cosa c’è in questo disegno di legge.»

Nel disegno di legge c’è un piano per scavare un tunnel di 156 km sotto la Yucca Mountain, riempirlo in quarant’anni con 77mila tonnellate di scorie nucleari e poi sigillare il tutto finché i rifiuti non si siano decomposti. A soli 145 km a nord di Las Vegas, la montagna finirebbe per contenere – a pieno regime e se il progetto sarà approvato – l’equivalente radioattivo di due milioni di singole esplosioni nucleari, circa sette trilioni di dosi radioattive letali, sufficienti per uccidere ogni essere vivente di Las Vegas, Nevada, per quattro milioni e mezzo di volte.
Il che spiega perché la folla al Viva non stava bevendo molto.
Perché il barista cercò di alzare ancora di più il volume del televisore.
Perché le palle da biliardo rotolarono piano fino a fermarsi con un tonfo sordo contro le sponde del tavolo e perché l’unica cameriera del Viva mormorò fra sé e sé passando in fretta accanto alla tv con due vassoi: «Harry sì che è un grande».
Era buona televisione, quella.
Harry Reid stava in piedi nell’aula del Senato e diceva cose tipo «pazzesco», «irragionevole» e «passare sul mio cadavere».
Il voto di quel giorno al Senato statunitense era davvero importante per Las Vegas. Avrebbe ufficialmente approvato o bocciato uno studio ventennale sull’adeguatezza della Yucca Mountain come potenziale struttura per lo stoccaggio dei rifiuti nucleari americani.
Denominato The Environmental Impact Statement for the Yucca Mountain Project (Relazione sull’impatto ambientale del progetto Yucca Mountain), il rapporto contava 65mila pagine, con migliaia di riferimenti extra a centinaia di studi diversi, tutti ipertestualmente collegati fra loro su due comodi compact disc. Se stampato e rilegato in una copia per ciascun senatore, il rapporto avrebbe richiesto l’utilizzo di 23 500 kg di carta, sarebbe stato lungo quasi due chilometri e mezzo e avrebbe facilmente ricoperto il pavimento dell’intera aula del Senato con ottanta centimetri di carta.
Non notai tutta quella carta su c-span, quel giorno, e non vidi nemmeno molti senatori muniti di laptop.
Invece, i senatori iniziarono il loro dibattito domandandosi se quel documento, che nessuno di loro possedeva, contenesse 252 «questioni scientifiche irrisolte» oppure 293.
Se questo fosse importante o se non lo fosse.
Se il progetto fosse considerato dagli scienziati «pericoloso» o «sicuro» o «più che sicuro».
Se un’alternativa allo stoccaggio delle scorie nucleari, come riportato in un articolo della rivista Discover – mostrato da un senatore quando prese la parola in aula – fosse «possibile» o «impossibile», se fosse più corretto pronunciarlo pryoprocessing o pyraprocessing* e se fosse necessario l’aiuto di un assistente in aula per stabilirlo.
Discussero del costo di quattro miliardi di dollari. Discussero del costo di sette miliardi di dollari. Discussero anche del fatto che il progetto «non costasse nulla
ai contribuenti americani» perché, secondo un senatore, c’era «un enorme fondo privato per l’energia i cui interessi erano maturati moltissimo dalla fine degli anni settanta e che poteva essere usa- to per pagare proprio tutte queste cose», il che – se fosse stato vero – avrebbe reso la conseguente discussione a proposito del costo to- tale preventivato del progetto di «24 miliardi di dollari» e «27 miliardi di dollari» e «38 miliardi di dollari» e «46 miliardi di dollari» e «59 miliardi di dollari» e «almeno 60 miliardi di dollari» e «100 miliardi» e «troppo» e «non abbiamo altra scelta», del tutto priva di significato pratico.
E invece la discussione andò avanti lo stesso.