I freaks di Dagospia: Belpoliti sulla fine della vergogna

Belpoliti analizza il ruolo della vergogna nella società, sentimento a cui stiamo diventando insensibili

È uscito Senza Vergogna, il nuovo libro di Marco Belpoliti edito da Guanda. Scrittore, giornalista dell’Espresso e della Stampa, Belpoliti è l’autore de Il corpo del capo, saggio pubblicato nel 2009 sull’uso esasperato e vincente dell’immagine di Berlusconi nella sua impresa politica. Da Berlusconi parte anche il suo nuovo saggio: per Belpoliti l’affaire Berlusconi/Noemi è uno scandalo mancato, a causa della nostra sempre più crescente incapacità di vergognarci.

Marcello cammina in direzione della spiaggia. Ha il volto serio e insieme malinconico. Gli si affianca un travestito, Mariuccio. Poco prima, all’interno della casa, questi si è esibito in una danza. Mariuccio prende a parlargli in tono confidenziale: «Ah, la natura! L’alba mi fa sempre effetto. Tanto. Ieri sera stavo così bene. Tutta truccata. Adesso mi sento appiccicosa. Ma a me che m’interessa più di questo? Io ormai mi voglio ritirare. Sento che devo fare penitenza. Però mi sa che più se ne ritirano, più ne vengono fuori. Che ne so! Se ne ritirano due e ne vengono fuori dieci. Nel ’65 sarà tutta una depravazione completa. Ah, no? Mamma mia! Che schifezza ne verrà fuori!»

È l’ultima scena di La dolce vita, il film di Federico Fellini, apparso nelle sale italiane nel 1960, suscitando scandalo e insieme un febbrile interesse da parte delle platee; si tratta della più famosa opera cinematografica del regista romagnolo, e anche di uno dei più celebri film di tutti i tempi, tanto che il suo titolo è diventato un’espressione proverbiale: «dolcevita».

Nella scena dell’orgia, con tanto di spogliarello di una partecipante, scena che ha suscitato un immediato scandalo alla proiezione del film, Marcello ha assunto il ruolo di maestro delle cerimonie. Se l’è presa con una prosperosa modella giunta da poco dalla provincia: l’ha messa a quattro zampe sul pavimento e l’è salito in groppa a mo’ di cavallo, quindi l’ha cosparsa di piume tratte da un cuscino sventrato. Fellini, a tratti moraleggiante, a tratti decisa- mente amorale, offre con questo finale lo spettacolo di qualcosa d’insensato, grottesco, al limite del normale.
Sono trascorsi cinque decenni, e lo spirito ambiguo e paradossale della Dolce vita, delle sue feste, sembra essere trasmigrato, fatte le dovute proporzioni, in un album fotografico, Cafonal, che raccoglie le immagini scattate da Umberto Pizzi e diffuse quasi ogni giorno online nel sito Dagospia di Roberto D’Agostino. Pizzi è uno dei «paparazzi» di via Veneto, attivo dalla fine degli anni Sessanta. Oggi che la celebrata via romana non è più il centro della vita mondana, Pizzi s’apposta fuori dalle case dove si svolgono feste private, oppure vi partecipa munito della sua macchina fotografica digitale per documentare quella che il libro definisce «l’Italia cafona», composta di manager, industriali, cardinali, veline, prelati, signorine, ereditiere, artisti, ex democristiani, ex socialisti, ministri in carica, Presidenti del Consiglio, giornalisti, segretarie particolari, alti dirigenti di industrie, finanzieri, militari, ufficiali dei carabinieri o della finanza. Uno spettacolo impressionante, che manifesta una totale assenza di pudore e di vergogna sia in chi ritrae sia in chi è ritratto.

Pier Paolo Pasolini, in una famosa recensione della Dolce vita, apparsa nel febbraio del 1969, parlava della « dilatazione espressionistica dei costumi e degli ambienti», soffermandosi sugli elementi caricaturali che definiva vignettistici, un tratto che diventerà ancora più evidente nei film successivi, sino a culminare in Satyricon (1969) e in Roma (1972). Il poeta, collaboratore dello stesso Fellini nella stesura della sceneggiatura della Dolce vita, dà al film la patente di opera cattolica: «per cui i dati del mondo e della società si presentano come dati eterni e immodificabili, con le loro bassezze e abiezioni, sia pure, ma anche con la grazia sempre sospesa, pronta a discendere: anzi, quasi sempre già discesa e circolante di persona in persona, di atto in atto, di immagine in immagine».
Giusta o sbagliata che sia, la lettura di Pasolini coglie tuttavia un aspetto importante del film di Fellini, ovvero la sua prossimità a una visione cristiana, anzi cattolica, della vita, che andrà via via scemando nel corso degli anni successivi, sino ad arrivare alla celebre scena della sfilata di moda religiosa in Roma; nello sguardo felliniano, cattolicesimo e paganesimo si mescolano e s’ibridano a vicenda. Il regista romagnolo tende sempre più verso un paganesimo disincantato, al limite del cinismo, per quanto mitigato da una forma di patetismo e di commozione malinconica che gli appartengono intimamente. Il senso di colpa e la vergogna, proprie di una visione del mondo e della vita di tipo cattolico, vanno diminuendo nei film successivi, pur restando quel residuo di pudore implicito nella poetica del ricordo felliniana.
Nulla di tutto questo c’è nelle fotografie raccolte in Cafonal, dove il grottesco domina incontrastato. I volti colti nelle feste, che si svolgono per lo più nei palazzi romani – un ricordo non troppo lontano della festa a Bassano di Sutri della Dolce vita o quella nella residenza romana della nobildonna in Roma –, sono sfatti, e mostrano in modo inverecondo il trascorrere del tempo sui loro visi e corpi. I vestiti indossati dai convitati appaiono assurdi e provocatori, mentre gli sguardi sono sguaiati, privi di pudore; anzi, tutti i partecipanti esibiscono la propria persona come se fosse una maschera carnevalesca, eccessiva e parossistica.
Nei suoi scatti Pizzi insiste sugli aspetti volgari dei personaggi colti al volo, in una sorta di reciproco rafforzamento: mostrarsi «cafoni» diventa, invece che un difetto, un vanto, così che non è solo lo sguardo del fotografo a costruire la scena cafona, ma sono anche i suoi soggetti a recitare fino in fondo la parte. Fellini, come ricordava Pasolini nel suo pezzo, mescola alto e basso, nobili e sottoproletari, dando anche spazio all’irruzione di mostri «irrelati e irriferibili», e questo dà la sensazione di una ventata di purezza, una forma di vitalità irrefrenabile.
In Cafonal invece domina uno spiccato senso di morte, una visione del disfacimento progressivo dei corpi, ma anche delle anime, una forma di voyeurismo eccessivo, assai vicino a quello del porno. Le situazioni in cui i protagonisti mangiano, in piedi o seduti, ai party, appaiono cariche di effetti laidi, osceni, alla stregua delle scene di ballo, o di quelle di travestimento o di quelle, solo in apparenza opposte, in cui i protagonisti dell’ultima dolcevita si spogliano, o mostrano parti intime del proprio corpo.
Nelle scene felliniane emergeva una forma di sottile vergogna, impersonata a tratti dallo stesso protagonista, Marcello; in particolare, là dove l’aspirante scrittore è messo a confronto con Enrico Steiner, l’intellettuale, l’unico dei personaggi del film che viva in una zona prossima al sacro. Steiner, come si sa, finira` per suicidarsi, dopo aver ucciso i due figli piccoli, un gesto che contiene, come ha scritto un critico, Antonio Costa, «un messaggio inaudito, non riconducibile a nessuna categoria umana». Una forma di vergogna suprema di se stesso che lo conduce, come in una tragedia greca, al folle gesto.
La vergogna, che Fellini mette in scena nella parte del film in cui Marcello incontra Steiner, contiene senza dubbio un elemento patetico, e lascia trasparire una forte sofferenza in entrambi i personaggi. Una delle più lunghe sequenze è ambientata nel salotto di Steiner, in una bella e ampia casa, dove si radunano intellettuali, scrittori, poetesse, artisti; qui non c’è nulla di grottesco e mostruoso, al contrario delle altre scene di gruppo del film.
L’intento delle foto di Cafonal appare quello di svilire i personaggi raffigurati, di abbassarli, trasformarli, anche quando non lo sono – il che è raro –, in mostri. Si tratta di un modo per esporre la mancanza di vergogna quale efficace antidoto alla vergogna stessa. L’essere svergognati dei personaggi ritratti da Pizzi non funziona come una sorta di critica verso i loro atteggiamenti, alla loro palese immoralità; e neppure, al contrario, come un modo per avvalorare la loro stessa spudoratezza, la loro assenza di vergogna. Cafonal crea una sorta di terra di nessuno, insieme visiva e morale, quella della vergogna senza vergogna, in cui lo sguardo decisamente carico di sadismo del fotografo fa sì che gli scatti ottenuti siano la manifestazione del degrado generale della società italiana – un degrado che non finisce di finire –, e allo stesso tempo non contengano alcuna traccia di repulsa, di rifiuto.
La categoria che sembra prevalere in queste istantanee a colori è quella della «mostruosità», quella dei freak, ovvero dei «fenomeni», per usare un termine messo in circolazione con altri intenti dal critico americano Leslie Fiedler. La spudoratezza delle pose e dei gesti colti dallo scatto fotografico manifestano una forma di patologia, uno stato limite.
Tutti in Cafonal indossano maschere, fanno parte della più generale mascherata che è la relazione sociale, così come qui appare. La maschera, sostiene Fiedler, esercita un’attrazione sensoriale, non un semplice fatto visivo, ma una sorta di partecipazione: «la sensazione di guardare, riluttanti, ma affascinati, l’oscenità messa a nudo dell’io e dell’altro». Lo spettacolo della vita, per dirla ancora con il critico americano, è colto nella forma dell’esibizionismo, della scena pornografica, facendo leva su una situazione di intimità tipica della festa: la prossimità e il contatto. Il fotografo utilizza proprio questa apparente intimità, fingendosi prossimo ai personaggi che ritrae: un pudore spudorato.