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  • Venerdì 23 aprile 2010

La pace in Medioriente? Scordatevela

Miller ha lavorato tutta la vita alla pace tra israeliani e palestinesi. Ora non ci crede più

Aaron David Miller ha fatto il consigliere per sei segretari di stato statunitensi e ha lavorato al dipartimento di stato ininterrottamente dal 1978 al 2003. La causa che lo coinvolto di più nel corso della sua vita è stata la pace tra Israele e Palestina: ci ha creduto e ci ha lavorato, per anni. Ed era ottimista, racconta su Foreign Policy: ottimista di un ottimismo talmente cieco da somigliare a una religione, da diventare incondizionato e irrazionale. Non è stato il solo. Da almeno trent’anni la maggior parte dei presidenti statunitensi considera il processo di pace in Medioriente come una propria irrinunciabile missione, spiega Miller, destinata in un modo o nell’altro ad avere successo. Sono ottimisti, sono “credenti”.

Come tutte le religioni, anche quella del processo di pace ha sviluppato il suo credo e i suoi dogmi, con alcuni principi immutabili. Durante gli ultimi vent’anni, io stesso li ho scritti in centinaia di promemoria per i miei superiori al dipartimento di stato e alla Casa Bianca: erano un catechismo, recitato col cuore. Primo comandamento: la ricerca di un accordo di pace è un importante – se non addirittura il più importante – interesse statunitense nella regione. Secondo comandamento: l’accordo può essere raggiunto solo attraverso un negoziato basato su uno scambio tra terra e pace. Terzo comandamento: solo l’America può aiutare i palestinesi e gli israeliani a siglare questa pace.

Sebbene non tutti i presidenti siano stati dei “credenti” – vedi Ronald Reagan e George W. Bush – i tre comandamenti hanno catturato capi di stato autorevoli e di diverse provenienze politiche, come Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter, George H.W. Bush, Bill Clinton. E ora anche Barack Obama. Insieme a loro un esercito di analisti, consulenti, esperti, funzionari, diplomatici: tutti aggrappati a questo triangolo di immutabili comandamenti, anche mentre il mondo attorno a loro cambiava in modo repentino. “Se questa non è fede”, scrive Miller, “allora non so cos’è”.

L’amministrazione Obama si è andata a infilare nello stesso triangolo. La risoluzione della questione mediorientale sembra davvero un lavoro per una figura riconciliatrice ed ecumenica come l’attuale presidente statunitense, e diversi uomini nella sua amministrazione – a cominciare da Rahm Emanuel e Hillary Clinton – avevano già perseguito con determinazione questo obiettivo in passato. Ma quello che è accaduto in questi primi quindici mesi di presidenza, sostiene Miller, dimostra che le buone intenzioni degli Stati Uniti sono fuori strada. E la loro fede è immotivata.

Non saprei dire quante volte in questi vent’anni ho scritto promemoria e analisi per gente molto importante sulla centralità della questione mediorientale e sul perché gli Stati Uniti dovessero risolverla. E molto prima che io arrivassi al dipartimento di stato, nel 1978, i miei predecessori avevano fatto simili riflessioni. Dicevamo che un conflitto irrisolto avrebbe provocato altre guerre, aumentato l’influenza sovietica nell’area, indebolito gli arabi moderati e rafforzato i radicali, impedito l’accesso al petrolio e in generale minato l’influenza statunitense nell’area.

Sai che c’è?, dice Miller: non è successo. Durante quegli anni, mentre la situazione tra israeliani e palestinesi non si muoveva, gli Stati Uniti hanno raggiunto i loro obiettivi fondamentali in Medioriente. Hanno contenuto i russi. Hanno rafforzato i loro legami con Israele e con stati chiave come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita. Hanno conservato il loro accesso al petrolio.

Miller dice che oggi non scriverebbe gli stessi promemoria assertivi e ottimistici. Sì, il conflitto irrisolto tra israeliani e palestinesi è ancora un problema. Ma ci sono almeno tre temi che per gli Stati Uniti contano di più. Per prima cosa le guerre in Afghanistan e in Iraq, che vedono impiegati decine di migliaia di soldati americani. Secondo, la caccia ai terroristi, specie in scenari come il Pakistan, la Somalia e lo Yemen. Terzo, l’Iran e le sue aspirazioni nucleari. Certo, un successo nel processo di pace avrebbe tra i suoi effetti anche un avvicinamento alle soluzioni a questi problemi. Ma non è necessario, scrive Miller, e rischia di essere inutile e dannoso.

Gli Stati Uniti non possono reggere il peso di un altro clamoroso fallimento basandosi su quanto Bill Clinton ci disse poco prima dell’inizio del summit di Camp David: “Ragazzi, provare e fallire è meglio di non provare affatto”. Questo slogan può andare bene per una squadra di football, ma non è una dottrina di politica estera. Obama si è impegnato a concludere due guerre, portare i soldati sani e salvi a casa, impedire all’Iran di ottenere la bomba atomica, tirare fuori gli Stati Uniti dalla recessione e da una gravissima crisi economica. Governare è scegliere: fissare delle priorità, stabilire degli obiettivi, approfittare delle opportunità che si presentano. Non è combattere contro i mulini a vento.

Gli americani sono ottimisti per natura, ma ci sono tre ragioni per cui – secondo Miller – oggi un processo di pace non può portare da nessuna parte. Primo: il processo di pace mette a rischio la vita dei suoi protagonisti. Avete presente la fine toccata al presidente egiziano Sadat e al primo ministro israeliano Rabin? Ecco. Netanyahu, Abbas, al-Assad non hanno aspirazioni suicide. Secondo: le decisioni difficili richiedono leader forti e popolari, che abbiano l’autorità, la legittimità e la credibilità per assumersi la responsabilità di decisioni così complicate. Gli attuali protagonisti dello scenario mediorientale non hanno nessuna di queste caratteristiche. Terzo, anche avendo dei leader forti e credibili, serve un progetto che sia politicamente sostenibile per tutte le parti in causa, e quel progetto oggi non c’è: temi come la spartizione di Gerusalemme o il ritorno dei rifugiati sono diventati molto più complicati e intricati rispetto a trent’anni fa.

Per questo, secondo Miller, Obama è in trappola: un presidente brillante, innovativo, empatico e con un premio Nobel per la pace in tasca, che si è infilato nella religione della pace in Medioriente, attirandosi quindi anche le responsabilità e le colpe per tutte le cose che inevitabilmente non funzioneranno. Per questo gli Stati Uniti dovrebbero riconsiderare il loro approccio alla questione.

Io c’ero, ai funerali di Rabin a Gerusalemme. Mi ricordo che cercavo di convincermi che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto mollare, che avrebbero dovuto salvare il processo di pace anche dopo quanto era successo. Io non sono un pessimista. Credo nel potere della diplomazia americana quando è forte, intelligente ed equa. Ma l’entusiasmo, il fervore e la passione se ne sono andati, rimpiazzati da una visione sobria e disincantata. Gli Stati Uniti facciano quello che possono, aiutando i palestinesi a sviluppare delle istituzioni, spingendo Israele a far respirare l’economia palestinese, placando le tensioni a Gaza. Ma sappiano che ci sono cose che non possono fare.


La falsa religione della pace in Medioriente, Giovanni Fontana, 20 aprile 2010